Stop Child Labour: la posizione di Italianats

Il lavoro minorile è l'effetto di una serie di cause: povertà, modelli economici e politici che
addensano le ricchezze in poche mani, assenza di politiche sociali, situazioni di
emergenza e di guerra.
Per fare un esempio lontano dal contesto asiatico, spesso emblema del lavoro minorile,
ricordiamo che prima della crisi del 2001 le strade di Buenos Aires non erano invase da
centinaia di bambini ed adolescenti che - almeno fino all’anno scorso - vivevano di
accattonaggio e svuotando i cestini della spazzatura. In un Paese grande 8 volte l'Italia,
che produce derrate alimentari per oltre 300 milioni di persone, senza riuscire a sfamare i
38 milioni di argentini, non è un caso che da diversi anni si svolga, con la adesione di
centinaia di organizzazioni sociali, una marcia di migliaia di chilometri con lo slogan "La
fame è un crimine". (vedi www.pelotadetrapo.ar).
Nell’azione internazionale si corre spesso il rischio di riproporre la grande contraddizione
che alla volontà di creare un mondo più giusto per bambini e adolescenti, corrispondano
soluzioni sostanzialmente impraticabili o inadeguate a combattere efficacemente le
condizioni di ingiustizia, disagio e deprivazione vissute da questi stessi soggetti.
Le varie campagne di respiro mondiale, susseguitesi fino ad oggi, non sono riuscite ad
incidere efficacemente sull’azione dei Governi che mantengono le loro politiche sociali a
livelli inadeguati o addirittura mirano a ridurle. In tale scenario, anche la Campagna Stop
Child Labour sembra astrarsi dal contesto di feroce sfruttamento che il sistema neoliberale
va imponendo e punti il bersaglio sul mondo imprenditoriale, chiedendo alle aziende di
assumersi l’incarico di monitorare l’applicazione delle politiche rivolte all’infanzia, o in
alcuni casi di intervenire attivamente nella loro implementazione.
Questa azione non tiene conto, tra l'altro, del fatto che, come dimostrato dai dati
disponibili, la quasi totalità del lavoro minorile si svolge lontano dalle grandi imprese, in
contesti di lavoro informale.
Questo è quello che si ricava dai 15 punti di raccomandazione che la campagna pone
all'attenzione delle aziende.
Anche questa campagna, demonizzando il lavoro dei bambini ed adolescenti, senza
distinzioni neppure per quello degno, (legato alla famiglia, alla Comunità, con orari e
carichi di lavoro ridotti, e tempi per lo studio e lo svago) rischia di contribuire al fallimento
di possibili politiche alternative nei confronti del lavoro minorile, andando, seppure in
buona fede, a colpire duramente e reiteratamente nel tempo milioni di bambini.
Gli slogan del genere "I bambini non devono lavorare" rispondono più ad un sentimento
ideale di infanzia che si vorrebbe imporre universalmente, che non alle concrete esigenze
di sopravvivenza ed emancipazione; nè tengono adeguatamente conto delle articolazioni
culturali e dei differenti contesti.
I continui insuccessi di esperienze di estromissione da situazioni di sfruttamento di migliaia
di bambini e bambine che invece di riversarsi nelle scuole, sono stati fagocitati in lavori
ancora più indecenti, sembrano non aver insegnato nulla, (vedi dichiarazioni Ong indiane
alla promulgazione della legge di estromissione dei bambini da ristoranti e chioschi 10-11-
12- ottobre 2006) e viene da chiedersi perché, le esistenti esperienze positive di creazione
di lavori alternativi in condizioni degne, ancora non vengono prese in considerazione.
Ma a colpire è soprattutto la assordante assenza dei bambini e degli adolescenti lavoratori
che permane anche in questa campagna, si proprio loro, che dovrebbero essere investiti
per primi nel processo di cambiamento che certamente li riguarda; essi dovrebbero essere
i protagonisti, con loro si dovrebbero definire i piani di uscita dai luoghi di sfruttamento, con
loro si dovrebbe discutere di diritto allo studio e alla formazione, di futuro, perché loro non
sono il problema ma parte della soluzione, come dicono i Movimenti dei bambini ed
adolescenti lavoratori di Africa, America Latina e Asia.
Loro, i bambini e adolescenti lavoratori, non ci sono, sono l’oggetto della Campagna ma
non ci sono come soggetti; altro aspetto importante in aperta contraddizione con tutto
quanto si cerca faticosamente di far avanzare anche in sede Onu, rispetto alla
partecipazione dell’infanzia alle decisioni che la riguardano.
Questo induce a pensare che il protagonismo dei bambini e degli adolescenti non voglia
essere preso seriamente in considerazione o che faccia paura: perché?
Forse perché fa meno audience, o perché rischia di rompere gli schemi dei reiterati luoghi
comuni, costringendoci ad assumere paradigmi nuovi in termini di pedagogia, sociologia,
economia, lavoro.
In contesti dove i bambini e le loro famiglie non hanno alternative, se non quelle di cui
ogni giorno siamo costretti a prendere atto: la prostituzione, la delinquenza, la fuga verso
le megalopoli e altre nefaste strategie di sopravvivenza, è giunto il momento di avere il
coraggio di dire che la miglior alternativa realmente praticabile al lavoro minorile
sfruttato è un lavoro minorile non sfruttato; un lavoro degno di alcune ore al giorno,
che permetta di frequentare la scuola e di avere una vita sociale; questo sarebbe un primo
importante passo verso la soluzione del problema dello sfruttamento minorile. Occorre
avere il coraggio anche di riconoscere laddove la scuola dello Stato non c'è o non è
accessibile ai bambini lavoratori, che l'educazione informale può svolgere un ruolo utile
per quanto riguarda l’apprendimento, l’integrazione e la presa di coscienza dei ragazzi del
bisogno di una scuola per tutti e di tutti.
Anziché criminalizzare il lavoro minorile si dovrebbero fare campagne per far acquistare i
prodotti fatti dai bambini in condizione di lavoro degno, sarebbe un modo, fuori da ogni
assistenzialismo, per far guadagnare i mezzi a bambini e adolescenti per i loro studi e le
loro famiglie.
Una politica siffatta, sarebbe uno stimolo e una alternativa possibile per tutti gli altri giovani
che lavorano in condizioni di sfruttamento, affinché abbandonino chi li sfrutta e possano
iniziare a costruirsi un futuro.
Una economia responsabile e solidale che non espelle le persone ma le integra, non le
marginalizza ma le associa, non le abbruttisce bensì le emancipa: non è utopia, molte
esperienze testimoniano che questo tentativo si sta diffondendo, occorre crederci e
battersi perché si affermi.
Aldo Prestipino, Italianats
31 ottobre 2007

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