PERU': DONNE E BAMBINI RI-COSTRUISCONO IL LORO FUTURO

Il . Inserito in Rassegna stampa

L'articolo di Margherita Moles è apparso sul numero di novembre 2003 del mensile di MANITESE.

 

di Margherita Moles


Un recente viaggio in Perù, nell’estate scorsa, all’interno di un programma di Turismo Responsabile e Solidale (TURESOL), ci ha consentito di conoscere un Paese sicuramente mitico e lontano, ma anche immerso in grandi categorie dell’immaginario, quali Terzo Mondo e America Latina, che spesso generalizzano troppo la realtà. Abbiamo avvicinato alcune esperienze della cooperazione e del volontariato laico e cattolico, attraverso le quali siamo entrati dentro i problemi reali e nei modi per affrontarli, che qui costituiscono oggetto di riflessione e dibattito critico. Da Pamplona, un quartiere della periferia di Lima, comincia la nostra esplorazione umana del Perù, incontrando bambini e bambine, adolescenti, donne e animatori e ascoltando le loro storie.

Pamplona (Lima)

Ricostruire una nuova identità, contro lo sradicamento

Pamplona è uno dei "pueblos jovanes" di Lima, baraccopoli ai margini della capitale, dove REDINFA (l’associazione peruviana che ha ideato il progetto TURESOL) realizza attività di animazione e di promozione della salute mentale. L’arrivo al barrio dà subito l’impressione di trovarsi ai confini del mondo: su una collina, fatta di sabbia, argilla, massi enormi che sembrano in procinto di cadere da un momento all’altro, una miriade di baracche, casupole di lamiera, qualcuna in cemento, altre con fogne a cielo aperto e poi bambini e bambine, cani, rumori, odori, un universo che lascia ammutoliti: qui abitano quasi trecentomila persone. Sono gli sfollati che provengono dalla sierra o dalla selva che, accolti con diffidenza da altri sradicati come loro, hanno dovuto presto dimenticare le loro origini, la loro cultura e inventarsi un lavoro, oppure aggregarsi a qualche banda o provare la scorciatoia dello spaccio, con tutte le prevedibili conseguenze.

E’ qui che siamo arrivati: una baracca con due locali fatiscenti e dentro un gruppo di adolescenti e delle donne e, ancora, molti bambini. Ci aspettavano. Li abbiamo ascoltati presentarsi e raccontarci del loro lavoro, ci hanno parlato dei loro desideri, del futuro che hanno voglia di costruire, della felicità che qualcuno sia venuto a trovarli, e poi ci hanno mostrato i loro prodotti, che vendono. Le donne costruiscono dei grandi pannelli di stoffa, le "arpilleras", belli e coloratissimi; le ragazze dei biglietti augurali, decorati con una tecnica molto raffinata di collage. Ma la cosa che più ci ha sorpreso è stato il contenuto di questi lavori. Raccontano pezzi della loro tradizione, il matrimonio, il lavoro, le feste, su nella selva o nella sierra. Insomma quel lavoro non è solo un modo per guadagnare qualcosa. E’ il tentativo di non dimenticare, di comunicare pezzi di una cultura sedimentata attraverso la sapienza di generazioni, nella dimensione di un laboratorio che diventa esso stesso esperienza collettiva: ricostruire dove la realtà vorrebbe disgregare. Così abbiamo conversato, osservato, acquistato qualche oggetto. Il loro valore non è solo estetico. Abbiamo portato con noi la loro fatica, la loro fantasia, i loro sogni.


LIMA, SICUANI, ICA

Dove i bambini- lavoratori diventano soggetti sociali

In tre occasioni abbiamo incontrato gruppi di bambini e ragazzi lavoratori. A Lima -- e precisamente una delle esperienze qui condotte da MANTHOC --, a Ica, mille chilometri a Sud di Lima, sulla costa, dove opera un gruppo associato ai NATs, e a Sicuani, all’interno, nella zona andina meridionale, in un’attività promossa da REDINFA. Diverse le esperienze, anche se il problema rimane lo stesso.

In Perù i bambini -- tutti i bambini e le bambine in certe zone -- normalmente lavorano. Sono forza lavoro insostituibile e aiutano ad integrare il reddito, quando la somma complessiva che tutti i membri di una famiglia riescono a racimolare serve appena alla sopravvivenza. Ovviamente la situazione dei bambini lavoratori è molto differenziata: dalla bambina di tre anni che, collocata davanti alla bancarella della madre con in braccio un cucciolo di lama, serve ad adescare il turista, ai numerosi lustrascarpe, dai pelatori di patate ai piccoli contadini e pastori, dalle bambine lavoratrici domestiche agli strilloni che al volo salgono e scendono dagli autobus. Le condizioni di lavoro sono spesso pesanti, le forme di tutela inesistenti, il compenso quasi sempre irrisorio.


Un’altra dimensione, consapevole

Questa realtà ci ha costretto ad un salto culturale. Qui non si può semplicemente gridare che i bambini non devono lavorare, qui si impara che si possono percorrere altre strade. Le esperienze che abbiamo incontrato, alcune cattoliche, altre laiche, partono da questi presupposti:

a) è giusto che i bambini e i ragazzi possano lavorare e contribuire al reddito famigliare;
b)occorre offrire loro spazi ed occasioni perché possano organizzarsi e negoziare tempi, salari e condizioni di lavoro migliori;
c) occorre aiutarli a costruirsi delle vere e proprie organizzazioni a molti livelli (locale, regionale, nazionale), esprimendo delegati, rappresentanti che mettano a punto precise piattaforme rivendicative;
d) gli si deve insegnare a negoziare con i loro genitori, affinché il contributo economico che essi portano sia utilizzato prioritariamente per la loro istruzione.

Li abbiamo incontrati. Ci hanno parlato di sé, dei loro problemi, del come sono organizzati, del che cosa vogliono e del come si stanno muovendo. Ebbene, siamo rimasti un po’ sconvolti per la loro maturità, la capacità di analisi della propria situazione, la elaborazione di strategie di intervento, l’efficacia comunicativa. Non sembravano appartenere a ragazzi adolescenti le moltissime esperienze di cui ci raccontavano: occupazioni di piazze, interviste in televisione, incontri coi politici, mediazioni con le famiglie, contrattazione su singoli e specifici problemi. Ma dove siamo capitati, continuavamo a chiederci. E ancora più disorientati eravamo, quando, passati alle domande, ci sentivamo rispondere in modo preciso, circostanziato, con grande competenza e senza un briciolo di timidezza e di retorica. Alla fine ce ne andavamo un po’ spaesati, sconcertati nel confronto con i giovani italiani che conosciamo, ma in un certo senso anche pieni di speranze per il futuro di quel Paese che può contare già da ora sull’energia, sulla consapevolezza e sulle competenze sociali di questi bambini, adolescenti, giovani, ragazzi e ragazze.


CALAPUJA

Dove le donne fanno comunità sulla sierra

Calapuja è un piccolo paese sulla sierra, a 3850 metri s.l.m., sul percorso che dal lago Titicaca porta alla leggendaria Cusco, in mezzo ad una distesa infinita di altipiani. La gente è dispersa sulla sierra sconfinata: 500 persone nel piccolo centro e 15mila disseminate sull’altopiano, dove vive in case isolate o a piccoli agglomerati, persone abituate a lottare per la sopravvivenza, che dipende da 12 ore di lavoro al giorno per tutti, dai bambini ai vecchi, per strappare un po’ di sostentamento e un vestito da indossare, indispensabile, quando nella notte la temperatura scende di molti gradi sotto lo zero.

Eppure qui qualcosa, molto si sta muovendo. Così un gruppo di donne "di lana, tessuti e colori", come si definiscono in un volantino di autopresentazione, ha cominciato ad organizzarsi. Si trovano ogni giorno sul piccolo sagrato della Chiesa: noi le abbiamo viste arrivare alla spicciolata, dopo che avevano già portato gli animali al pascolo e avevano mandato i figli a scuola. Molte avevano sulle spalle un fagotto con dentro un bambino di pochi mesi. Avevano con sé i ferri del mestiere, si sono sedute ed hanno cominciato a lavorare: si sono specializzate nella produzione di piccoli indumenti di lana, cappelli, sciarpe, calze, guanti, maglioni. Ad un tratto un bambino ha cominciato a piangere: allora la madre si è messa ad allattarlo, quasi senza interrompere il lavoro. Conversavano, cucivano, allattavano, come se tutto fosse assolutamente normale. E in questa forma di socializzazione, per nulla costruita, molto naturale, quel gruppo di circa 20 donne ha trovato la forza di progettare un pezzo di futuro: chiedono che i loro lavori siano valorizzati, di potere avere una sede dove incontrarsi, di potere disporre di telai per tessere; dichiarano il bisogno e il diritto di sognare un domani migliore per sé e le proprie famiglie, credono che si possano creare le condizioni per impedire che i propri ragazzi, diventati adolescenti, un giorno salgano su un pullman e spariscano, attratti dal sogno amaro e senza speranza della grande metropoli.

Ci sorridiamo, diciamo poche parole. La nostra comunicazione è fatta soprattutto di sguardi, di stupore ed ammirazione. Le lasciamo, intuendo che il loro sogno è difficile, ma molto, molto concreto e sta già dando i primi frutti.

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